COO.BRA
Coordinamento Bracciantile saluzzese
I frutti puri impazziscono
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I FRUTTI PURI IMPAZZISCONO*

Di Manuela Cencetti – Coordinamento Bracciantile Saluzzese

“Uomo bianco”, Onyeocha, attore in maschera durante una esibizione ibo. Amagu Izzi, Nigeria sudorientale, 1982

Saluzzo, 13 dicembre 2014

Cerco di riordinare le idee sugli ultimi giorni (e anni) della mia conoscenza del contesto saluzzese e sulle “dinamiche locali” legate alla sempre più consistente presenza di migranti, provenienti da diversi paesi del continente africano, in cerca di lavoro nel periodo della raccolta della frutta. Un periodo che approssimativamente si estende da maggio a novembre. Lo faccio come persona non autoctona, non originaria della zona, né residente in quella provincia. In pratica, provo a parlarne da straniera in terra di Saluzzo, dove l’autoctonia sembra caratteristica pressoché imprescindibile per poter interloquire con buona parte della popolazione locale che si occupa – o, al contrario, non si cura affatto – della presenza stagionale di persone “non bianche” in questa zona.

Il mio incontro con gli uomini – braccianti e disoccupati – che ogni anno lavorano o cercano un ingaggio nelle campagne di Saluzzo avviene nell’estate del 2011, anno in cui i numeri della loro presenza in città (che conta circa 17.000 abitanti) hanno iniziato ad incrementarsi rispetto ai primi arrivi del 2009. Inizialmente giunti nel saluzzese dopo essere stati espulsi dai “cicli produttivi” del Nord-est, i braccianti ed i disoccupati si trovano a dover vivere all’addiaccio, prima presso la stazione dei treni e, poi, in una zona chiamata “Foro Boario”, adibita a mercato del bestiame, fiere ed eventi e situata in prossimità dell’isola ecologica, ai margini dell’agglomerato urbano.

Non mi dilungherò, in queste prime e scarne riflessioni (antropologiche, più che economiche o sociologiche) sul perché la presenza di persone migranti in possesso di permessi di soggiorno per lavoro o per motivi umanitari (sempre più numerosi sono infatti richiedenti asilo, rifugiati, titolari di protezione sussidiaria) – con differenti storie migratorie alle spalle – rappresentino sempre più, in molte regioni d’Italia, una quantità crescente di manodopera straniera “eccedente”, o più precisamente “estraniata”, dall’economia di questo paese.
Uomini e donne sparsi e mobili sul territorio nazionale in funzione della richiesta di manodopera del settore di produzione agricola su larga scala e di tipo intensivo, corpi utili a formare quel bacino “adatto”, da cui le aziende attingono durante i periodi di raccolta. Stiamo qui parlando di grandi aziende e grandi sistemi di distribuzione, lasciando fuori dall’analisi, per ora, la realtà dei piccoli produttori e produttrici, che garantiscono frutta e verdura di qualità, senza sfruttamento della terra e del lavoro, tra mille difficoltà e concorrenza spietata, essendo i prezzi imposti unilateralmente da multinazionali ed ipermercati. Mi riferisco a persone che vivono e lavorano in condizioni di forte precarietà, senza nessuna visibilità di tipo sociale e politico ed il cui lavoro rientra in una zona grigia o nera, risultando sistematicamente sotto-pagato e spesso decisamente sfruttato.

Non mi dilungherò neppure sulla linea del “colore” e della razza messa al lavoro, o lasciata in attesa di occupazione, né sulle sue articolate sfumature all’interno delle diverse mansioni nel ciclo produttivo, sia nei luoghi di produzione che di distribuzione. Anche qui la presenza ed il ruolo di “autoctoni” e “migranti” è altamente differenziata ed ha molto a che vedere con provenienza, storia, status giuridico e posizione all’interno di uno spazio economico e sociale altamente stratificato.
Gli elementi che vorrei analizzare sono, invece, i seguenti: la composizione – mutevole – del gruppo di lavoratori e disoccupati che vivono a Saluzzo per inserirsi nella raccolta stagionale alcuni mesi l’anno; il contesto saluzzese ed in particolare gli attori che, nel tempo, si sono avvicinati ed occupati di questa presenza “africana” in un pezzo di Piemonte; le narrazioni che sono state progressivamente costruite; lo spazio politico e fisico occupato da braccianti e disoccupati nel corso degli anni.

Se nel 2011 i genericamente chiamati “braccianti africani” dormivano a cielo aperto, sul marciapiede a lato delle rotaie della stazione ferroviaria, nel 2012 vivono in baracche auto-costruite presso il Foro Boario. Da lì ogni giorno, con biciclette e telefonini, si spostano alla ricerca di ingaggi nelle campagne circostanti, spesso trovando lavoro a decine di km da Saluzzo. Alla sera tornano nelle baracche, di mattina si ricomincia, a fine stagione il campo viene sgomberato e le baracchine distrutte e rimosse dalla forza pubblica.
Per la città, nel periodo antecedente (dal 2009 al 2012), la loro presenza era stata in qualche modo tollerata e facilitata da diversi settori della società civile, delle organizzazioni cattoliche ed ecclesiastiche presenti sul territorio, da alcuni amministratori del Comune, dal Comitato antirazzista, che ne avevano garantito una visibilità “umana”, senza mai affrontare politicamente la questione del bisogno di una casa. Pertanto possiamo registrare, per questo tipo di esperienza e migrazione lavorativa, che il trovare un tetto, un luogo dignitoso per vivere, incontra fin da subito un ostacolo che pare insormontabile, in quanto non si è mai apertamente tematizzata la questione del chi e come dovrebbe farsi carico della sistemazione abitativa di lavoratori sottopagati e di persone in attesa di lavoro “a chiamata”. Il bisogno abitativo dei lavoratori stagionali non sembra peraltro qualcosa di nuovo, ma trova interessanti antecedenti nella condizione dei braccianti negli anni ’70 e ’80 giunti dal sud Italia, in particolare dalla provincia di Lecce. [1]

Sempre in quel primo periodo (2009-2011), vari sono i tentativi da parte di lavoratori e disoccupati di “insediarsi” in luoghi abbandonati o dismessi da tempo, tentativi che vengono repressi, o per qualche tempo tollerati in condizioni che non si possono di certo definire dignitose, ben sapendo che quel tipo di manodopera è funzionale al tessuto produttivo del territorio e non rappresenta ancora un problema legato apertamente al decoro ed al controllo della città. In pratica, per quel che riguarda istituzioni, solidali ed opinione pubblica in generale, la presenza degli “stagionali” risulta gestibile in quanto non ancora percepita come troppo visibile ed “invadente” da parte della maggioranza dei residenti. Anzi, nei primi anni, si deve registrare l’emergere di un certo fascino per quello che potremmo definire “l’esotico nei paraggi”, dimostrato da alcune/i autoctoni (in gruppi o singolarmente) nei confronti di braccianti e disoccupati africani accampati: un “pezzo” di Africa che si materializza di colpo nel cuore del saluzzese e con cui è possibile interagire e relazionarsi a partire dai bisogni più materiali. Persone da “aiutare” e proprio perché “bisognose” ancora facilmente tollerabili. I braccianti stagionali, in questo periodo piuttosto invisibili, rappresentano un’esperienza di alterità davvero “a portata”.

Pertanto la prima relazione che si instaura tra lavoratori di origine africana, alcuni saluzzesi e alcuni settori istituzionali, potrebbe essere inquadrata all’interno di una reciproca relazione tra diversità, mista a pratiche di controllo e gestione di stranieri che permangono durante un periodo (a termine) sul territorio, ed attività di quotidiano tamponamento rispetto ai bisogni materiali primari di chi vive accampato. Le realtà che partecipano a questa dinamica sono gruppi solidali, chiesa cattolica e associazionismo vario; un accompagnamento volontaristico dei lavoratori alla “scoperta del territorio” e, nel caso, all’accesso di qualche diritto minimo: acqua corrente, corsi di lingua, documenti da rinnovare, pronto soccorso. Una relazione di tipo umanitario tra autoctoni e lavoratori, basato sulla linea del colore e sul “fascino” della provenienza. Una meticcia attrazione, repulsione e appropriazione simbolica di questo settore relativamente circoscritto di manodopera che lavora nelle terre saluzzesi, connotato per colore, temporaneità della presenza e condizione lavorativa e abitativa costantemente precaria.
In modo evidente, fin da subito, viene evaso il nesso fondamentale con chi ingaggia, chi ha bisogno di quei lavoratori (così come di altri meno “riconoscibili”). Non si pone in maniera esplicita e forte la questione delle condizioni lavorative e contrattuali con le quali queste persone sono ingaggiate, nè di quali siano gli attori che dovrebbero farsi carico della sistemazione abitativa degli “stagionali”. [2]
Ricordiamo inoltre che la crisi economica scoppia nel 2008 ma inizia a far sentire le sue reali ricadute solo negli anni successivi. È proprio in questa parabola temporale che diventa, purtroppo, molto interessante e indicativo descrivere ciò che accade anche nell’Italia del Nord, nell’arco di sei anni di persistenza e strutturazione della crisi (2009-2014).

Futuro Anteriore

La protesta a cui assisto in prima persona nell’ottobre del 2012 avviene al Foro Boario di Saluzzo, dove i lavoratori e le persone in cerca di lavoro risiedono già da mesi. Si tratta oramai di una vera e propria baraccopoli auto-organizzata che, curiosamente, verrà ribattezzata dall’anno successivo Guantanamò [3] dai suoi stessi “abitanti”. Il motivo per cui nel 2012 mi reco al Foro Boario, insieme ad altre persone provenienti da diverse parti del Piemonte e dalla stessa Saluzzo, è una richiesta di solidarietà da parte degli accampati: nelle baracche fa troppo freddo, non ci sono servizi di alcun tipo, la situazione è fisicamente e psicologicamente insostenibile per chi ci vive. In quella serata, proprio accanto a quelle baracche e all’interno di un capannone riscaldato, è in corso un rinfresco offerto dalla Coldiretti per inaugurare l’ennesima Fiera della Meccanica Agricola con istituzioni ed imprenditori. Questo avviene a pochi passi dalle baracche. A dividere i due lontanissimi “contesti” ci sono una cancellata ed un pannello fatto installare dal Comune per coprire l’osceno campo (definito “spontaneo”) agli occhi degli ospiti della kermesse.

Quella sera – dopo lunghe trattative e discussioni, che ai miei occhi risultano difficili da seguire, perché anche le ragioni e le richieste dei “solidali” rientrano in un’ottica puramente “emergenziale” – il Sindaco chiama la protezione civile che interviene portando tende e regalando copertine termiche, rigorosamente “a scadenza”, che verranno smantellate poco tempo dopo. Questo avverrà, con tempi e modi leggermente differenti, anche l’anno successivo.
A questo punto possiamo fissare il 2012 come l’anno in cui presso il Foro Boario comincia a formarsi quella città semi-invisibile, ma molto reale, che sarà “Guantanamò”, dove braccianti e disoccupati provenienti in gran parte dall’Africa sub-sahariana si trovano a vivere ai margini di Saluzzo. In questo luogo all’autocostruzione di baracche si alterna il montaggio di tende (con o senza cappotto interno contro il freddo) non appena la stagione diviene più rigida e la salute di chi vive in quelle condizioni rischia di diventare fortemente compromessa, chiamando in causa responsabilità anche di tipo “sanitario” da parte delle istituzioni.

La presenza degli “africani” – scusate la generalizzazione ma recupero in parte termini autoctoni per poterne parlare – si inserisce così, con apparente lentezza e non senza polemiche e tensioni tra maggioranza di centro-centro-sinistra e attacchi dell’opposizione di centro-destra e destra estrema, nel contesto della piccola città, in cui la maggior parte degli abitanti gode di un reddito medio piuttosto alto e la cui economia si basa essenzialmente sul comparto di produzione agro-industriale della frutta (3° comparto nazionale).

Partendo dal 2012, è possibile in seguito identificare il 2014 come un altro momento cruciale per quel che riguarda le condizioni di vita di lavoratori stagionali e disoccupati a Saluzzo durante il periodo della raccolta. La Caritas locale, infatti, insieme ad un altro ente cattolico ed attraverso l’utilizzo di fondi propri oltre che della CEI [4], si trova nella condizione di accentrare su di sé l’accoglienza di chi arriva sul territorio, predisponendo un campeggio definito solidale, per circa 200 persone e altre mini-tendopoli per poche decine di braccianti. E’ un anno di svolta rispetto agli anni precedenti, dato che non sarà più ammessa in nessun modo la costruzione delle poco presentabili baracchine auto-costruite nel Foro Boario, mentre il numero di presenti nel campo sarà in qualche modo monitorato e risulterà contenuto rispetto all’anno precedente. Se i numeri 2013 superano le 800 persone accampate, in larga parte concentrate nella sola area del Foro Boario, nel 2014 le stime parlano di meno di 700 persone, sparse nei 7 diversi campi predisposti sul territorio.
E’ importante a questo proposito menzionare la molto pubblicizzata presenza di “Campus” di container predisposti dalla Coldiretti, a partire dal 2013, in cui vengono “alloggiati” – solo a partire dal mese di luglio, mentre la stagione di raccolta inizia a fine maggio – lavoratori in possesso di contratti di lavoro, in numero però decisamente ridotto rispetto al totale. Peraltro, nel 2014 questi container vengono sistemati lontani dal piccolo mondo di Guantanamò, con cui l’anno precedente vi erano stati molti contatti indesiderati da parte dei gestori dei container.

Nel corso di questi passaggi ed “epoche” che cerchiamo di descrivere sommariamente, gli episodi in cui la popolazione, non autoctona, ma migrante e residente in quel pezzo di Saluzzo cerca di prendere la parola, di esprimere una voce rispetto alla propria condizione di vita ed al proprio “destino”, sono numerose nel 2013: la risposta allo sgombero preventivo [5] ordinato dal Comune ad inizio stagione 2013, la rivolta dell’acqua nell’agosto 2013, la sovversione della Mostra della meccanica agricola tramite la performance di Lola Furiosa [6] e la successiva “irruzione” nel tavolo istituzionale cui era stata invitata la ministra Kyenge [7] nel settembre 2013, la partecipazione al corteo antirazzista di Torino contro la Lega Nord nell’ottobre 2013.

Il gruppo di braccianti e disoccupati è ogni anno diverso per composizione, provenienza ed esperienza rispetto alle dinamiche sociali e lavorative del territorio. L’organizzazione di richieste minime comuni e di qualche forma di rivendicazione sia sul piano dell’abitare che delle condizioni di lavoro incontra moltissimi ostacoli e la maggior parte dei discorsi solidali portati in pubblico si limita ad invocare “dignità per i migranti”. In questo contesto è importante evidenziare come, a partire dal 2012, la positiva presenza di altre realtà portatrici di differenti posizioni, analisi ed esperienze in molti altri contesti italiani – ad esempio Campagne in Lotta e le Brigate di Solidarietà Attiva, che da anni accompagnano percorsi auto-organizzati di rivendicazione da parte dei braccianti in Puglia, Calabria e Basilicata – viene presentata quasi immediatamente come una minaccia e boicottata anche da alcuni solidali, in quanto “non autoctona”, venendo rappresentata in maniera schematica, mancando la volontà di confrontarsi – anche scontrandosi e sapendo che nessuno è portatore di alcuna verità – sui temi che la presenza di lavoratori e disoccupati migranti richiederebbe.

É un campo profughi quello che vedo?

Arriviamo alla primavera-estate 2014. La strada di asfalto cieca, che finisce in un campo di mais e che porta ad uno dei cancelli del Foro Boario, non si trasforma più in Guantanamò ma nel “Progetto Presidio”. Vengono acquistate e montate una accanto all’altra molte tende piuttosto grandi, modello campo profughi, ben recintate; vengono portati container con docce e bagni; viene approntata una tettoia sotto cui vengono sistemati fornelli dove i lavoratori possano cucinare. Questa nuova sistemazione fa sì che i migranti “prenotino” telefonicamente la loro branda in una tenda ad inizio stagione. L’obiettivo perseguito, dall’amministrazione comunale prima ancora che dalle forze dell’ordine, è che non si vedano baracchine e giacigli precari al di fuori del perimetro del Campo solidale.

La realtà è ben diversa. Le tende non basteranno, se ne troveranno altre, verrà aperto un nuovo “campo” a Savigliano per ospitare una parte del Progetto Presidio già saturo e nel pieno della stagione le presenze saranno più del doppio di quelle per cui è predisposta l’ospitalità (oltre 400 persone per poco più di 200 posti).
L’esperimento di quest’anno, però, garantisce altri aspetti non secondari: il decoro della città non viene più messo in discussione, non circolano immagini troppo sconvenienti che di tanto in tanto erano comparse su qualche giornale o sito web malandrino, le istituzioni e le forze di pubblica sicurezza si sentono “al riparo” da critiche ed attacchi, perché esiste qualcuno o qualcosa che si occupa dell’accoglienza, non ci sono più percorsi assembleari auto-organizzati dove poter tematizzare collettivamente i problemi quotidiani legati al lavoro, alla casa, ai documenti ed alla salute. I lavoratori di origine africana hanno finalmente uno spazio “degno” a loro dedicato, uno spazio destinato ed allestito “per loro” o, detto in un altro modo, per il “loro bene”, gestito tra l’altro da un ente per nulla anonimo, ma moralmente e spiritualmente superiore, lontano dalla cosa pubblica e dalle responsabilità di chi ingaggia quei lavoratori e a cui non viene richiesto alcun apporto o contributo.

Questa riflessione non entra minimamente nel merito dell’iniziativa Caritas/Papa Giovanni, né vuole criticare chi ha cercato nel corso del tempo di organizzare uno spazio di vita minimamente degno di questo nome, garantendo servizi fondamentali a cui qualsiasi persona, stagionale o meno, dovrebbe avere accesso.
É interessante invece calare vari elementi e contenuti, emersi con forza negli ultimi giorni di ottobre, dentro la realtà locale e nazionale, uscendo come prima cosa dalla esorcizzazione dello “straniero”, dato che io per prima mi sento profondamente straniera in terra saluzzese, pur essendo nata a poche decine di chilometri da lì. Ma cerchiamo di andare con ordine e ricapitoliamo alcuni aspetti salienti.

Nel 2009, 2010, 2011, 2012, 2013 e 2014, i lavoratori migranti – tra le risposte più o meno informali ed autonome al bisogno di trovare un posto dove vivere durante la stagione “lavorativa” e le risposte maggiormente organizzate e logisticamente “pulite” di quest’ultimo anno – hanno continuato a dormire per strada, in baracche auto-costruite, oppure in tende di diversa proprietà.
Nel corso degli stessi anni, la stragrande maggioranza di lavoratori e disoccupati in cerca di un ingaggio ha continuato a vivere in un campo isolato ai margini della città di Saluzzo (la qual cosa, come è noto, favorisce l’“integrazione” tanto invocata sia dalla sensibilità democratica di chi si colloca nel centro-centro-sinistra di qualcosa, quanto dalle destre populiste di varia foggia) e quest’anno un altro campo, ben nascosto, è stato montato anche ai margini della città di Savigliano (in una zona, tra l’altro, molto pericolosa perché potenzialmente alluvionale), oltre che a Lagnasco e Manta, oltre che nei tre campi – anch’essi periferici e nascosti – aperti dalla Coldiretti a partire dal 2013 a Saluzzo, Lagnasco e Verzuolo.
Questa scelta – intenzionale da parte di chi gestisce la presenza dei lavoratori e disoccupati nella zona – punta probabilmente a rendere la loro presenza il più possibile invisibile agli occhi della cittadinanza. I cittadini e le cittadine di Saluzzo possono tranquillamente osservare questi lavoratori a piccoli gruppi, una “massa” che non viene mai percepita davvero come tale, perché incontrata accidentalmente: in bicicletta, al bordo delle strade statali a qualsiasi ora del giorno e della notte, piuttosto che nei parcheggi dei supermercati principali della città.

Dal 2009 al 2014 si sono verificati diversi episodi in cui i braccianti hanno fatto sentire la propria voce rispetto alle condizioni vissute quotidianamente, principalmente riguardo alle condizioni abitative e meno sul piano dello sfruttamento lavorativo, dal momento che la necessità e la ricattabilità sono fattori di fortissimo impatto sulla vita di ogni lavoratore. Le aziende ed i loro rappresentanti sono, tra l’altro, sempre risultati irreperibili, si potrebbe dire ancora più invisibili degli stessi braccianti, mentre le risposte delle istituzioni si sono sempre concentrate su un piano meramente umanitario o di ordine pubblico, in particolare relativamente ai problemi “gestionali” della presenza africana ed alle varie “emergenze freddo” che si ripetono, incredibilmente, ogni anno. E’ importante osservare che nessuno ha affrontato con chiarezza il fatto che vivere e cucinare per circa 6 mesi l’anno in un campo, più o meno attrezzato, non può essere la norma né per i lavoratori, né per i disoccupati.

Dal 2009 al 2014 non ci sono stati avanzamenti sul piano delle condizioni di lavoro dei braccianti e dei lavoratori “in attesa”, bensì arretramenti. Non è nato alcuno spazio politico attraverso cui fosse possibile chiamare davvero in causa i rappresentanti dei datori di lavoro (a partire dalla Coldiretti) per quel che riguarda le forme di lavoro a cottimo, a chiamata, le giornate non segnate, il lavoro nero, e dove fosse possibile mettere i grossi sindacati di fronte alle loro responsabilità, visto che la loro presenza è stata più che altro “etica”, limitandosi a fornire cv in bianco, consigli o supporto per piccole vertenze. In questo enorme vuoto politico, il Comune ha catalizzato si di sé ogni responsabilità, assenza (e sbavatura), giungendo poi quest’anno a subappaltare definitivamente la presenza dei lavoratori su Caritas e Papa Giovanni.

Narrazioni

L’elemento più interessante in questo senso è sicuramente rappresentato dalla narrazione pubblica che si fa intorno a questa popolazione che, come detto prima, è prima di tutto manodopera “disponibile” ai margini della città, utile a coprire i picchi di bisogno durante la raccolta. È importante inoltre sottolineare come molti disoccupati arrivati sul territorio per necessità, e che si trasformano per bisogno in “braccianti”, sono portatori di altre competenze e spesso ricoprono incarichi presso aziende e cascine che non riguardano solo la mera raccolta o trovano lavoro in qualche piccola fabbrica della zona quasi sempre con contratti a tempo determinato.
Inoltre dal 2009 al 2014 la composizione di chi è in cerca di lavoro e di una qualche possibilità di vita si è modificata. Molti sono i migranti che possiamo definire “economici”, già da tempo stanziali in Italia e licenziati da fabbriche e imprese andate in crisi e successivamente chiuse, a cui si sono aggiunti molti giovani arrivati con la cosiddetta Emergenza Nord Africa nel 2011 dopo i bombardamenti NATO sulla Libia. [8]
Possiamo quindi registrare il dato che molti “non-braccianti per scelta” provengano da questi percorsi migratori forzati, che a tutt’oggi affollano le prime notizie dei telegiornali, ma a cui nessuno ha dato risposte serie e consistenti, a partire dalla prima accoglienza nei confronti di rifugiati, richiedenti asilo, titolari di permessi per motivi umanitari e protezione sussidiaria che, una volta “registrati” in Italia dalle varie commissioni territoriali non possono più lasciare il paese (convenzione Dublino II). Inutile citare percorsi di seconda e terza accoglienza, che in Italia proprio non esistono, se non in esperienze minime per quantità e qualità.

Questo dato, relativo alla composizione migrante e rifugiata della manodopera, che piaccia o no alla Coldiretti, che piaccia o no agli imprenditori, ai Comuni ed agli amministratori, alla Caritas, agli Scout, al volontariato, alla Confindustria e al Vaticano, è presente in ogni territorio in cui viviamo, dalle campagne alle città. E’ presente, però, soprattutto nelle tentacolari “zone grigie” dove dilaga la sofferenza sociale, zone in cui la ricerca di una fonte di reddito espone le persone a condizioni instabili e spesso inumane di lavoro e di alta ricattabilità per quel che riguarda i diritti, e nega qualsiasi possibilità di rivendicazione o organizzazione collettiva.

Il passaggio successivo, quello che, nell’ottobre del 2014, arriva a tematizzare anche nel borgo della felicità di Saluzzo, il bisogno di casa come bisogno ampio, trasversale, urgente, oltre che strettamente legato ad una specifica condizione lavorativa (quella bracciantile), non fa altro che situare in modo leggermente più critico l’esistente ed inserire, anche questa zona del cuneese, in un quadro più ampio. Infatti, l’esperienza di crisi, la mancanza di reddito, lo status giuridico (la dipendenza del rinnovo dei documenti dall’avere o meno una residenza e dalla condizione lavorativa) sono ovunque questioni all’ordine del giorno e rappresentano quello stato di emergenza [9] (W. Benjamin) in cui sempre più persone si ritrovano a dover vivere, autoctone e non.
Stati di emergenze e stati di eccezione che hanno già trasformato buona parte della popolazione “africana” (ma non solo) in migranti forzati da un campo all’altro, da sud a nord, da est a ovest. Un percorso migratorio forzato interno al paese, per cui pensare di “fermarsi” da qualche parte anche solo per un periodo, per imparare la lingua o fare dei corsi di formazione, sembra o diventa impossibile.

I frutti puri impazziscono

Arriviamo ora ai “fatti” di metà ottobre, in cui una parte dei residenti nel “campo solidale” di Saluzzo, accompagnati da un gruppo di “solidali” (scusate la ripetizione di parole in un territorio evidentemente così affollato di solidarietà), si è mosso per le strade del centro dando vita ad una significativa manifestazione spontanea, in testa alla quale vi era uno striscione con su scritto, in italiano ed in francese, “Vogliamo casa per tutti”.

Proviamo ora ad immaginare un visitatore curioso che, arrivato in territorio saluzzese e trovandosi per caso al campo allestito della Caritas, si ritrova tra persone piene di entusiasmo, che sentono il bisogno di affermare con forza quello che avviene per il sesto anno consecutivo e si ripresenta puntuale quando il freddo inizia a colpire più duro. Le persone che il visitatore curioso ha appena conosciuto dicono quello che sanno tutti e tutte (e mi riferisco soprattutto agli autoctoni, in questo caso) da ben sei anni a questa parte: senza una casa non si vive bene, né tanto meno in salute ed in sicurezza, fa sempre più freddo, c’è umidità, non si può riposare, quando piove è un disastro anche in piena estate, per alcuni non c’è neanche una branda né un posto in tenda e si dorme per terra, su cartoni e materassi. Dal campo, improvvisamente, parte un corteo spontaneo che ha voglia di attraversare quella cittadina e farsi sentire. La richiesta è una, tra le più urgenti: una casa. Molti edifici a Saluzzo, Savigliano così come in tanti altri comuni limitrofi, sono vuoti o abbandonati. Una casa dovrebbe esserci per tutti, anche per chi l’ha persa, perdendo il lavoro che serviva a pagare un affitto.

Se sul piano del lavoro, come abbiamo detto, è molto più difficile tematizzare in maniera collettiva la questione dello sfruttamento e creare dei percorsi condivisi, anche per la stessa popolazione italiana residente e che non ha problemi di “cittadinanza”, su quello della casa le idee sono chiare per tutti – senza lavoro o con lavori precari, un affitto non si riesce a pagare – e le richieste dovrebbero risultare comprensibili, ma la reazione che la piccola ed ordinata cittadina ha di fronte al corteo degli accampati è di estremo stupore, misto ad indescrivibile fastidio.

Il curioso visitatore non può che chiedersi: Cosa è capitato? Quali profonde convinzioni e quali pregiudizi hanno incendiato la cittadinanza saluzzese, così sensibile da un lato e così indifferente e menefreghista dall’altro? Cosa fa unire tutti, cosa fa confondere destra e sinistra che si ricompattano senza falsi pudori in una condanna per l’indicibile presa di parola? Per una richiesta espressa durante una passeggiata in cui non è successo NIENTE, ma è stato alla fine strappato un nauseante incontro con il sindaco, per portare anche in quella piccola stanza una sola domanda?

“Perché dobbiamo vivere nei campi? Perché se vogliamo fermarci in questo luogo e non possiamo andarcene da questo paese, non ci viene concessa alcuna possibilità di costruirci un futuro, ma veniamo semplicemente mandati via appena staccheremo l’ultimo kiwi?”

Quale incantesimo fa sì che tutto questo debba continuare a funzionare così e perché le forze dell’ordine sono chiamate a fare da scomposto filtro muscolare a protezione di Coldiretti, grandi aziende, Grande Distribuzione e Comune che fa loro da spalla? Siamo davvero noi (i braccianti e disoccupati migranti e rifugiati, insieme al curioso visitatore appena arrivato a Saluzzo) l’anello più osceno di questa catena di responsabilità mai chiamate in causa? Siamo davvero noi che mandiamo in pezzi la placida serenità di questo luogo? Chi ha mai dormito sereno sapendo che famiglie e singoli in difficoltà perdono la casa o non possono aspirare ad altro che ad una tenda? Quale invisibile confine è stato oltrepassato? Quali regole non dette? Esistono forse temi davvero intoccabili o soggetti che non devono né materializzarsi, né diventare domande o voci politiche di un bisogno concreto? C’è qualcosa o qualcuno che in questo modo, per la presa di parola diretta, per la richiesta – insospettabile, davvero insospettabile – di una casa, sembra non possa essere più tenuto a debita distanza? Forse, questa disordinata e festosa visibilità di corpi, usciti per un momento dal ghetto, attraversando il centro cittadino ha gridato al cuore profondo dei saluzzesi perchè, in misura crescente, sembrano esserci persone e cose “fuori posto”, cioè letteralmente fuori dal posto che è stato loro assegnato? [10]

Cosa c’è di così indegno che non può essere ricevuto? Si tratta di forma? Vogliamo veramente dire che i modi (è vero, il temibile corteo non è stato premeditato quindi neppure annunciato, ma del tema “casa” si è scritto e detto molto, nell’ultimo anno e mezzo, fino alla nausea) sono più importanti dei contenuti? Che forse i temi non esistono se non vengono infiocchettati e resi meno duri rispetto a quelle che sono le condizioni di vita di migliaia di lavoratori e disoccupati? Ricordo che la richiesta si riferiva ad una “casa per tutti”, non ad una casa per “qualcuno”. Ma per “loro” c’è solo il campo. Il campo a cui tutti hanno preso parte, senza più neppure metterlo in discussione nella sua forma ormai “sistemica” sul territorio nazionale.

Quindi “loro” quando prendono troppo spazio, quando non solo più una massa relativa, marginale o esotica, quando non sono l’oggetto delle politiche varie dell’“accoglienza”, diventano, forse, “troppo”? Quando “loro” diventano più estranei facendosi soggetto e dimostrano di sapere perfettamente ciò a cui hanno diritto, quando loro diventano “frammenti isolati” e non massa esotica, quando “loro” spiazzano la stessa rappresentazione pubblica che si ha di loro, “loro” allora, cosa diventano?

Mutazioni e ibridazioni

Immagino che chi sarà arrivato al termine della lettura di queste pagine vorrà forse rispondermi piccato o piccata per imprecisioni e prese di posizione, oppure potrà sentirsi colpito/a e offesa/o da un tentativo di analisi e descrizione di fenomeni molto complessi e da una mancata visione d’insieme su cosa sarebbe da considerare accettabile e su chi avrebbe diritto di prendere la parola o meno. Ci mancherebbe, siamo a Saluzzo, e l’autoctonia è la base della stessa esistenza pubblica del soggetto, prima ancora che di quella politica, pertanto continuerò a muovermi clandestinamente per le vie della città, come ospite non gradita.

Ciò a cui però nessuno mi ha ancora saputo rispondere è perché qualcuno che arriva da fuori e vede una situazione tanto prolungata nel tempo, quanto un po’ assurda, non abbia la facoltà di obiettare qualcosa o di portare un contenuto diverso, condividendo una richiesta così semplice e diretta come quella portata il 12 ottobre [11] dai migranti, ma debba essere ricacciato in un territorio straniero ed “estraneo”, nel quale vengono messe tutte quelle persone non di Saluzzo che pongono le stesse banali domande che vengono poste ovunque.

Il campo non è una forma di vita. Il campo non è solo una risposta, ma, attraverso la sua stessa esistenza, incarna un sapere, un modo preciso di interpretare una data realtà. Il campo etichetta chi ci vive come “stagionale”, “permanentemente temporaneo”; il campo esclude, discrimina sulla base del colore, stigmatizza e concentra le attenzioni di chi lo odia e di chi lo anima, così come di chi non ci va mai, ma sa che esiste e forse ne è rassicurato, anche se tutto questo sembra sfuggire alle preoccupazioni ed ai timori riformisti e democratici. Quegli stessi timori che, non appena vengono interrogati, fanno uscire fuori ben altre prese di posizioni di stampo razzista. Non credo che rendendo più vivibile un campo si cambino atteggiamenti xenofobi, né in una città grande nè in una più piccola, come dimostrano i “campi nomadi” così diffusi nelle nostre metropoli. I campi semplicemente non dovrebbero esistere.

Ringraziamo i lavoratori e disoccupati migranti e rifugiati che, nel 2014, a Saluzzo, hanno saputo porre una domanda.

Note:

[1] In questo senso è importante citare un’interrogazione parlamentare del 9 dicembre del 1980 di Casalino e Manfredi Giuseppe, al Governo, « per sapere – premesso: che 600 braccianti agricoli stagionali partiti dal Salento per il Piemonte, dove sono andati a lavorare, vivono in condizioni inumane e di sottosalario; che si tratta di lavoratori dei comuni di Melissano, Racale, Taviano, Ugento e Alliste che si sono recati a Saluzzo e a Fossano (Cuneo) per i lavori stagionali in agricoltura, alla ricerca del lavoro e della posizione assicurativa per poter essere iscritti negli elenchi anagrafici per i lavoratori agricoli; che imprenditori poco scrupolosi, oltre a violare il contratto di lavoro e le leggi sociali, li costringono a stressante lavoro straordinario e a riposare durante la notte in celle sottoterra quali iniziative intenda prendere per fare rispettare la legge e il contratto di lavoro dei braccianti agricoli agli imprenditori di Saluzzo e di Fossano, i quali, approfittando di determinate condizioni di disagio dei lavoratori che hanno percorso più di mille chilometri alla ricerca di un posto di lavoro, pensano di poterli sfruttare e maltrattare impunemente » (3-02486), consultabile comodamente online http://legislature.camera.it/_dati/leg08/lavori/stenografici/sed0250/sed0250.pdf

[2] Il terzo comparto della frutta inizia a prendere forma nel saluzzese e cuneese a inizio secolo, quando alcune famiglie iniziano a comprare ingenti quantità di terre e ad accentrare sul territorio alcuni tipi di coltivazioni. Nel primo dopoguerra gli “stagionali” provenivano dalle valli di montagna più vicine, dove la povertà era estesa e dove molti contadini poveri e con poca terra vendevano la propria forza lavoro nella raccolta della frutta in questa zona di Piemonte o nella vicina Francia oltreconfine. In molti casi i braccianti italiani, poveri e mal vestiti, venivano riconosciuti dalla polizia francese e rimpatriati come clandestini in Italia. Nel corso dei decenni la provenienza della manodopera cambia ma non cambiano le condizioni di vita a cui i lavoratori stagionali sono sottoposti. Il saluzzese non sembra davvero aver sviluppato nel corso di decenni alcuna reale attenzione alla condizione di chi si reca nelle aziende del territorio per la raccolta della frutta.

[3] Il termine che scelgono gli abitanti della baraccopoli da me incontrati, a differenza dalla rappresentazione edulcorata fornita da altri, fa riferimento al campo di detenzione extraterritoriale e illegale statunitense di Guantanamo, a Cuba. La percezione dello spazio in cui si vive, o si sopravvive, a Saluzzo viene associato ad un centro di detenzione di triste ribalta mondiale sicuramente conosciuto all’opinione pubblica. Anche da quella saluzzese.

[4] Conferenza Episcopale Italiana

[5] Nel giugno 2013 il sindaco in carica in quel momento (sempre democratico) firma un’ordinanza di sgombero preventivo, facendo distruggere le prime baracchine che erano già state costruite nella zona del Foro Boario. Tale azione provoca molte tensioni e grande disperazione tra i braccianti accampati a cui non viene offerta alcuna alternativa ma vengono invitati semplicemente ad abbandonare quel luogo e a non permettersi di bivaccare su nessun marciapiede della contea. Pochi giorni dopo lo sgombero-maquillage per l’immagine pubblica deciso dal sindaco, l’auto-costruzione delle baracchine riprende e si arriva in agosto al picco di circa 700 persone presenti nella baraccopoli. Mese in cui ha luogo anche la “rivolta dell’acqua”. Sempre lo stesso sindaco si reca a Guantanamo’ all’inizio di agosto scortato da carabinieri, vigili e tecnici del comune per chiudere l’unico accesso all’acqua presente nel campo. Ne segue una tensione altissima e i lavoratori bloccano immediatamente la rotonda principale di Saluzzo bloccando il traffico per ore, fino a quando non viene assicurato loro un nuovo accesso all’acqua, posizionato dai “tecnici” autorizzati in una zona molto più scomoda e con uno scolo fortemente insalubre rispetto al primo rubinetto “abusivo”, secondo il Comune.

[6] Lola Furiosa è comparsa per la prima volta nel 2013, in occasione dell’inaugurazione della Fiera della Meccanica Agricola. Lola Furiosa è una candidata a sindaco di Guantanamo che “dice” delle cose sulla vicina città di Saluzzo. È un dispositivo, incarnato ogni volta da una persona differente, che cerca di creare zone di orizzontalità e convivialità tra migranti e militanti, per costruire insieme un discorso pubblico che rovesci la narrazione che vorrebbe i migranti ogni volta “oggetti”, “vittime”, “problema”, “emergenza”. Fin da subito, tramite Lola, si è cercato di tematizzare il diritto all’abitare, attraverso pratiche di comunicazione guerrilla.

[7] Visita lampo ministra Kyenge per un tavolo “operativo” (che di operativo non avrà nulla) sulla situazione dei braccianti accampati, unici a non essere stati invitati alla kermesse.

[8] L’Italia ha fatto parte del gruppo di paesi che hanno promosso la guerra contro Gheddafi e la sua caduta, provocando una enorme mobilità di persone verso l’Europa, con responsabilità molto chiare per quel che riguarda il numero di naufragi e morti annegati nello stretto di Sicilia nel 2011.

[9] Walter Benjamin scrive in Angelus Novus (pubblicato nel 1940) “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo e’ la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò’ migliorerà’ la nostra posizione nella lotta contro il fascismo.” Questa citazione di Benjamin ci aiuta sempre a capire come molte persone e gruppi, in diversi paesi e contesti, anche in Italia, non vivono lo stato di emergenza come eccezione ma come regola, sulla loro pelle, ogni giorno.

[10] J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino, 2001, p. 18

[11] 12 ottobre: una data altamente simbolica e per nulla indifferente nella sua casualità, in cui tradizionalmente viene ricordata la “scoperta” dell’America, e in Spagna viene celebrato come Dìa de la Hispanidad, mentre in molti paesi dell’America Centrale e del Sud, e nello stesso paese spagnolo, vi sono molte manifestazioni e cortei ogni anno proprio per contestare tale definizione di “scoperta”, quanto per ricordare il giorno dell’inizio dell’“invasione e occupazione” spagnola e poi portoghese delle terre in cui vivevano milioni di persone appartenenti ai popoli originari, dal nord al sud del continente che è più corretto definire Abya Yala. Nel corso del tempo il 12 ottobre viene infatti dichiarato internazionalmente come Día de la resistencia indígena.

* Titolo liberamente ispirato dal testo di James Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino, 2001

I frutti puri d’America
impazziscono –
e continua quasi senza lasciare spazio al respiro…
gente di montagna del Kentucky
o del frastagliato limite nord del
Jersey
con i suoi laghi solitari e
le valli, i suoi sordomuti, i ladri
i nomi antichi
e la promiscuità tra
uomini spavaldi, nomadi della
strada ferrata
per schietta brama d’avventura –
e giovani sciatte, immerse
nel sudiciume
dal lunedì al sabato
per essere agghindate quella notte
con fronzoli
usciti da fantasie senza
tradizione contadina che dia loro
carattere
se non di ammicco e di esca
null’altro che stracci – soccombenti senza
emozione
fuorché di torpido terrore
sotto una siepe di ciliegio selvatico
o di viburno –
che non sanno esprimere –
A meno che l’unione
forse
con una goccia di sangue indiano
sgravi una ragazza così afflitta
così oppressa
da malattia o morte
che sia soccorsa da un
agente –
allevata dallo Stato e
mandata a quindici anni a lavorare in
qualche affannata
casa nei sobborghi –
una qualunque famiglia di medico, una Elsie –
acqua voluttuosa
dalla cui debole mente
scaturisce la verità su di noi –
i suoi grandi
goffi fianchi e il suo seno pesante
che si offre a dozzinali
monili
e a ricchi giovanotti dai begli occhi
quando all improvviso l’angoscmsa descrizione cambia rotta:
come se la terra sotto i nostri piedi
fosse
la deiezione di un qualche cielo
e noi sviliti prigionieri
destinati
alla fame fino a ingoiare sozzutne
mentre la fantasia corre
inseguendo cervi
che vanno per campi di verghe d’oro nel
soffocante caldo di settembre
In qualche modo
sembra distruggerci
E solo a frammenti isolati che
qualcosa
viene fuori
Nessuno
per testimoniare
e riparare, nessuno per guidare la macchina

“A Elsie” di William Carlos Williams, New York, 1920

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